Come immaginereste, lettori, la casa della strega? Se non l’avessi vista, io non saprei che dire. La casa della strega era un antro sotto terra, oscuro come solo un buco sotto terra può essere, e con qualcosa che incuteva terrore, nonostante la sua apparente normalità.
E com'era la casa della strega, cari lettori? Era che non ci potevi uscire. Un labiarinto? No. Era siolo vischiosa. Ci alzavamo, la mattina. Ci alzavamo, ma fuori vedevamo solo nebbia. Sapevamo che c'era un bosco, ma noi vedevamo solo la nebbia. E non riuscivamo a muoverci. Quel dannato incantesimo... eravamo legati a quella sedia, gli arti sprofondavano in braccioli di legno che giorno dopo giorno ci sembravano sempre più comodi, e ci avvolgevano, morbidi, come velluto. Ogni giorno. Ogni giorno, la stessa nebbia che diventava fottutamente familiare. E quello che giorno dopo giorno ci sembrava sempre più famiòliare, ci rapiva. Non pensavamop quasi più esistesse niente, al di fuori di quel macabro torpore che ci avvolgeva.
C’era un tavolo in legno scuro, alle cui spalle stava una credenza marrone, su cui erano impilate le porcellane. Piatti e scodelle, tazze e tazzine si susseguivano nei ripiani più alti, come in una casa normale, ma in quelli più bassi prendevano posto alambicchi di vetro e provette contenenti le cose più strane. Cervelli, feti, bulbi oculari, cuori e polmoni umani, ma anche insetti, serpenti, uova di animale: su quegli scaffali erano stipate parti di esseri viventi.
In quella casa erano rimasti i segni di tutti gli abusi che quell’orribile essere aveva usato su altre creature, senza tuttavia a riuscire, con tutto quest'odio, a soddisfare la sua fame di distruzione, di morte e di sofferenza, senza colmare il suo disprezzo per il mondo, che la rendeva sempre più cattiva e sempre più brutta.
Davanti al tavolo, c’era il camino, su cui era stato messo, sopra al fuoco acceso, un pentolone, dal quale ogni tanto uscivano grida soffocate e gemiti di dolore, che si alternavano al suono del bollore.
Il resto della stanza, buia, senza finestre e con pareti rivestite tutte di legno, era spoglio. Sulle pareti c'erano delle incisioni, disegni e scritte rudimentali: un teschio, una stella satanica, parole come “morte” e “sofferenza”. Schizzi di sangue e di vomito erano ovunque, per terra come sul soffitto, e sul tavolo, e ovviamente anche sulle pareti. Il tavolo era pieno di piatti usati, coltelli e forchette sporchi, avanzi di cibo ammuffito. Non c’erano né un letto, né qualcosa che assomigliasse a un giaciglio su cui dormire.
Il locale puzzava di sporco e di merda.
“Allora, miei nuovi amici”, sibilò la strega con la sua voce gracchiante, “sono lieta di fare la vostra conoscenza”
Oliver e io eravamo entrambi accasciati su due sedie di legno, con le spalle rivolte verso la porta d’ingresso, per cui, con la credenza alla nostra destra e il fuoco a sinistra, conservavamo una visione intera della stanza. Entrambi ci sentivamo intontiti e assonnati, come immersi in un inspiegabile torpore e, soprattutto, nonostante i nostri corpi non fossero legati da funi o manette, non riuscivamo a muovere un muscolo.
La strega, che stava in piedi davanti a noi, continuò a parlare:
“Innanzitutto, io sono Aracna, la Strega. Il mio nome, antico e che viene da lontano, significa Donna Ragno. Il motivo, come vedete, non è difficile da capire: mi piace intrappolare le mie vittime nella palude, come in una tela di ragno, intontirle con il mio veleno e, dopo averne neutralizzato i movimenti, aspettare che, in seguito ad atroci sofferenze, muoiano. Poi, me le gusto con calma, boccone dopo boccone…”.
Dicendo questo, la strega sorrise e i suoi occhietti cattivi scomparvero, inghiottiti dalle sue occhiaie gonfie e dalla pelle cadente delle sue guance.
“Ma a tutti dò una via d’uscita. Appena l’effetto della prima dose di veleno che vi ho iniettato si affievolirà, vi chiederò di raccontarmi le vostre storie. Se le vostre vite mi sembreranno degne di essere vissute, vi lascerò andare. Ma attenti, stranieri, perché finora non è mai capitato”.
Il mio amico e io tremavamo di paura e di rabbia, ma non riuscivamo a fare altro che gemere e sbavare. Mentre aspettavamo di riprenderci dall’effetto del veleno, osservammo la strega che si dedicava alle sue faccende. Camminava da una parte all’altra della stanza, trascinandosi dietro la gamba destra, che rimaneva rigida. Questo la costringeva ad assumere una postura storta: la spalla e il fianco destri, infatti, erano più bassi di quelli sinistri. Era come piegata su se stessa, gobba, con le spalle più alte della testa e i collo proteso in avanti. Estraeva polveri da cassetti, trafficava fra i suoi alambicchi, estraeva liquidi dalle provette, faceva strane miscele in altre ciotole che aveva preso dalla credenza. Intanto, biascicava sottovoce tra sé e sé delle parole incomprensibili, ogni tanto arricciando le labbra, come intenta a prendere una decisione difficile. Dopo aver mescolato strane sostanze in tre o quattro ciotole diverse, si fermò a riflettere, con gli occhi al soffitto e un’espressione assorta, per qualche minuto. Doveva essere arrivata al punto di non sapere più che fare. All’improvviso, fece un sobbalzo e il volto le si illuminò di gioia. Corse in un angolo della stanza, dove c’era un comodino con un cassetto. Da questo, estrasse un librone vecchio e rovinato, dalla copertina spessa di pelle. Sempre correndo, lo portò al tavolo della cucina, sul quale lo appoggiò, per poi aprirlo e iniziare a sfogliare freneticamente le pagine.
“Das ist nicht! Ist nicht hier! (non è questo! non è qui, in tedesco. n.d.a)”, gridava intanto in una lingua incomprensibile.
All’improvvisò le sue dita si fermarono e i suoi occhi, illuminati da una luce di vittoria, fissarono una pagina.
“Eccolo! Eccolo!”, gridò a quel punto.
Dopo aver letto poche righe, si affrettò a mischiare fra di loro le ciotole di prima, seguendo meticolosamente le istruzioni scritte sul librone. Quando mescolò le ultime delle ciotole, versandone una dentro l’altra, ci fu un piccolo scoppio e un nuvoletta di fumo uscì dalla scodella. Poi, un puzzo incredibile di alcool si diffuse per la stanza. Fu quell’odore che ci diede l’ultima sveglia, come uno schiaffo o una secchiata d’acqua gelida sulla faccia. Quando la strega gridò:
“Ecco il filtro della felicità! Finalmente ce l’ho fatta, è mio!”, Oliver e io eravamo ormai completamente svegli.
Comments