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Episodio 6 - La serata di gala

Immagine del redattore: Ilaria BuccaIlaria Bucca

Tuttavia, non riuscimmo a resistere alla tentazione di assistere alla serata di inaugurazione della festa. Infatti, visto che i membri della famiglia che avevamo già conosciuto erano così grotteschi, decidemmo di rimanere per poterci deliziare a prendere in giro anche gli altri. E facemmo la scelta giusta, perché mai in vita mia ho riso così tanto, come quella volte che vidi sfilare davanti a me tutti quei palloni gonfiati, guardandoli con superiorità e gli occhi ironici di chi ha già deciso di andarsene.


La serata di gala fu magnifica. Io e Oliver ci aggiravamo per la festa, agguantando ogni tanto una coppa di Champagne. Prima un po’ brilli, poi decisamente ubriachi, ridevamo nell’assistere allo spettacolo di tutti quegli orribili uccelli agghindati a festa. Non ce n’era uno, e dico non uno solo, che avesse fattezze almeno non del tutto raccapriccianti. Gipeti femmina obese, che non potevano camminare bene perché il ventre grasso strisciava loro per terra. Oppure magrissime, tanto che dalle rade piume si intravedevano non i muscoli, ma le ossa e i tendini. Erano tutte agghindate con magnifiche pelli di animali ricamate, a cui erano stati aggiunti preziosi inserti, come foglie secche di quercia dipinte con succo di more, o spighe dorate. Alcune portavano sul capo corone di zampe di insetti, addirittura esse avevano, a volte, luci di lucciole intrecciate con ali di mosca, o fili di bava di ragno. I maschi, i cui ornamenti erano più sobri, non erano però meno ridicoli.Anche le loro fattezza erano mostruose. Alcuni erano scheletrici, altri con fisici gonfiati da muscoli sproporzionati, altri ancora così grassi da superare per volume quelli delle femmine più grosse. Solitamente, sulle spalle avevano poggiato un mantello, fatto di fili d’erba intrecciati, o di rami e di fango. Ognuno degli ospiti vagava per la festa con il capo alto e il portamento fiero, un’espressione compiaciuta e altera sul muso, cosa che li rendeva, nella loro goffaggine, ancora più ridicoli. Non ci misero molto, in poco tempo erano tutti ubriachi. E allora ridevano a gran voce, emettendo suoni gracchianti, e in un batter d’occhio i loro occhi diventarono vacui e rossi, come iniettati di sangue.

Nel giro di un’ora o due, io e Oliver iniziammo ad avere paura di quelli che da grotteschi animali, erano diventati, almeno all’apparenza, dei mostri. Decidemmo quindi che era il momento di lasciare la festa, ma prima volevano ancora toglierci l’ultima soddisfazione.


Ci avvicinammo a Diderot il MAgnifico e a Orchidea la Fiera, aspettando che fossero soli e in un luogo un po’ appartato.

“Cari amici”, iniziò Oliver con il suo accento inglese e con quella squisita eleganza tipicamente britannica “io e la mia giovane amica Pecora siamo qui a porgervi i nostri più sentiti ringraziamenti, per l’ospitalità deliziosa che ci avete offerto”

Diderot il Magnifico sorrise orgoglioso, annuendo con il capo, come se quella referenza non fosse nient'altro che dovuta, e nessuno dei due si degnò di rispondere.

Io cercavo di trattenermi dal ridere e, per farlo, fui costretta a mordermi le labbra, darmi pestoni sulle zampe, addirittura a simulare uno starnuto. 

“Non ci sentiremmo tuttavia a posto con noi stessi, a rimanere qui nel vostro magnifico Regno, del quale non pensiamo di essere all’altezza. Proprio questa notte, infatti, lasceremo la terra dei gipeti, per continuare il nostro viaggio”, concluse Oliver, e anche lui dovette fare grandi sforzi per non scoppiare a ridere.

La reazione dei due fu in parte diversa da come l’avevo immaginata.

Quando vidi lo sguardo deluso di Diderot, che per la prima volta appariva ferito ai miei occhi, qualcosa si ruppe dentro di me. Non mi sentii più invincibile, per aver deciso di andarmene, e tutto l’odio che avevo provato per lui si dissolse come una nuvoletta di fiato, quando si respira nell’aria gelida. Puff… e la mia rabbia si sgonfiò come un palloncino. I suoi occhi divennero improvvisamente tristi, quasi lacrimosi, e il suo muso assunse una strana espressione di sconfitta mista a dolore. Vidi in quell’istante tutta la fragilità di un gipeto con il petto sempre gonfio e lo sguardo sempre severo, ma che in realtà dentro è solo un bambino impaurito, che cerca di farsi grande perché pensa di non possedere gli strumenti per farsi strada nel mondo… e in fondo, non li possiede affatto. Vidi tutta la sua pochezza, la sua stupidità, la sua restrizione mentale, ma non mi fece salire la collera. Mi fece pena, ma non mi sentii in colpa. Neppure per un istante pensai di rimanere lì a consolarlo. 

Orchidea, invece, ci guardò con un sorriso beffardo e, con tutta la cattiveria che una stupida gallinella può avere, disse: “Era proprio l’ora, che ve ne andaste”. Non la vidi neanche per un istante provare empatia per il suo povero marito, che a capo chino ondeggiava sulle zampe, come tramortito. Nella sua totale incapacità di vedere il mondo nella sua interezza, era convinta di avere vinto. In realtà, tutto ciò che stava succedendo era che lei rimaneva ancora più sola nel suo piccolo, minuscolo mondo. Sì, la nostra partenza la rendeva ancora più solida, regina di ghiaccio nel suo isolato castello.


Io e Oliver ci allontanammo per sempre dal Regno dei Gipeti. Prendemmo un sentiero che saliva, illuminato dalla luna piena e dalle stelle del cielo. Non facemmo molta strada, perché era tardi e noi avevamo bisogno di riposare. Trovammo un morbido tappeto d’erba, al riparo di una grande e bellissima betulla, e ci adagiammo lì sotto. Sdraiati sul dorso, rimanemmo qualche minuto a contemplare il cielo. Non mi ero mai sentita così libera. Era una sensazione di calma e di quiete, non un’esplosione di adrenalina come quella volta (vi ricordate?) che, saltata giù dal furgone del fattore, mi ritrovai per la prima volta nella vita tutta sola, nel bel mezzo della campagna. In quel momento ero serena, come non lo ero mai stata. Sia l’umiliazione che mi avevano causato i gipeti, sia la pena che avevo sentito per Diderot continuavano a bruciarmi un po’ nel petto. Ma ora, quel fuocherello che ardeva lento, era un tiepido rifugio, oltre a produrre un’aria calda che, arrivando in tutto il corpo, funzionava come un carburante e mi dava la forza di andare avanti. Quel posto era stupendo, mai il cielo mi era sembrato così magnifico. Tuttavia, non mi venne in mente neanche per un solo istante di rimanere lì, ferma. La mia curiosità mi spingeva a continuare e la mia voglia di conoscere non solo il mondo, ma anche tutti gli animali che lo abitano, non mi indussero a desiderare per niente di rimanere lì tutta sola, con la sola compagnia di Oliver la Scimmia. Tuttavia, mi rimaneva un forte sapore amaro in bocca.

 
 
 

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