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Episodio 5 - La festa della stirpe dello Zio Scott

Immagine del redattore: Ilaria BuccaIlaria Bucca

Aggiornamento: 15 nov 2024

Dopo solo qualche giorno che io e la Scimmia Oliver eravamo lì, incorreva un evento annuale a cui i gipeti tenevano molto. Era la festa della stirpe dello Zio Scott, a cui partecipavano parenti da ogni luogo, anche da molto lontano. Era tradizione, per i gipeti, riunirsi per ricordare le glorie dei propri antenati e tessere le lodi dei membri più importanti della famiglia. Fra questi, ovviamente, Diderot il Magnifico era il più lodato. Io e Oliver ci trovammo quindi coinvolti nei preparativi della festa: i gipeti diedero il meglio di loro. 

Arrivarono subito i parenti più prossimi, per aiutare Diderot e Orchidea. I primi furono la zia Ramoscella e lo zio Testone, lei magra magra, sottile come un filo d’erba, lui possente e tarchiato, di corporatura simile al fratello. Giunsero anche il fratello di Orchidea e la sua consorte, Giunco e Stalattite, lui con un fisico magro e nervoso e con un portamento tanto fiero quanto quello della sorella, lei piccolina, ma con uno sguardo di ghiaccio che faceva gelare il sangue nelle vene. Per giorni e giorni, i membri della famiglia furono indaffarati a preparare ripari di ramoscelli e fango per accogliere gli invitati, allestire il prato e gli alberi con festoni e luci colorate, cucinare pietanze prelibate da offrire agli ospiti. Diderot il Magnifico correva da una parte all'altra come impazzito, scrutando con il suo sguardo cattivo tutto quello che veniva fatto. Orchidea la Fiera camminava con il suo portamento altero e sorrideva orgogliosa, dimostrando da brava regina la sua magnanimità e indulgenza, quando criticava con voce pacata ogni minimo errore. Da parte sua, Paolo il Bello caracollava come sempre da una parte all’altra, combinando pasticci che poi gli altri gipeti erano costretti a riparare. Io e Oliver fummo costretti a dare una mano, purtroppo. Non mancarono episodi in cui dovemmo subire il nervosismo e la rabbia di Diderot e di Orchidea. 

Una volta, per esempio, mi chiesero di servire il rinfresco che erano soliti prendere a fine giornata, prima di cena, con i parenti più prossimi, parlando delle ultime novità. Un aperitivo era stato allestito su un bel vassoio elegante, fatto di legno di pino intagliato. Su di esso, erano stati disposti tanti diversi tipi di insetti: cavallette, grilli, ragni dal corpo rotondo e succoso, oltre a mosche, zanzare e moscerini. Sul bordo del vassoio erano stati disposti dei pezzi di carne di topo sfilacciata, fresca e ancora grondante di sangue. Nel mezzo, c’erano sei coppe, ognuna per i partecipanti, riempite di acqua fresca di sorgente mescolata a gocce di saliva di rospo. Si trattava di uno dei pasti più sontuosi a cui un gipeto potesse aspirare. Mi misi il vassoio in equilibrio sul dorso e, con il mio portamento più fiero, mi avvicinai alla famiglia stesa sul prato. Mi misi in mezzo a loro e permisi a ciascuno di servirsi della propria coppa. Poi rimasi lì, aspettando che vuotassero il vassoio. La cosa andò per le lunghe tanto che, un bel pezzo dopo che il sole era calato, eravamo ancora tutti lì in mezzo al prato.

“Bene!”, disse a un certo punto Diderot con la sua voce roca “direi che è il momento di andare a cena!”

Io pensai che l’aperitivo fosse finito e, felice di potermi muovere, azzardai allontanarmi di qualche passo, per posare il vassoio e sgranchirmi finalmente le zampe. Ma si trattò di un gravissimo errore. 

“Ferma dove sei, pecora!”, tuonò Diderot, “come osi allontanarti con il nostro cibo, prima che il banchetto sia terminato?”

Io provai a balbettare qualche parola di scusa, ma non ne ebbi il tempo, perché fui sovrastata da insulti e improperi, non solo da parte di Diderot, ma anche di Orchidea, il cui comportamento affabile degli ultimi giorni mi aveva indotta a credere di aver iniziato a piacerle, e di Paolo il Bello che, nonostante la sua stupidità, si permise di darmi della scema, con una superiorità del tutto fuori luogo. Sentii una voragine aprirsi nel mio petto. Era un buco nero, dentro il quale venivano inghiottite la gioia, l’allegria e la felicità che sono sempre stata in grado di provare, nonostate tutto. Ma era anche un baratro da cui altre emozioni scaturivano. L’ansia e la paura si impossessarono di me e in un attimo mi sembrò di trovarmi dentro a un incubo, dai suoni, dalle le luci e dall'ambientazione viscidi e vischiosi, che mi imprigionavano nel loro inferno. Mi sentivo in trappola, e invece di reagire soffocavo nella mia angoscia. Il cuore nel petto mi batteva lento, anche lui terrorizzato, e io rimasi paralizzata in quell’anelito di terrore. Mi venne la pelle d’oca su tutte le zampe (sì, anche le pecore hanno la pelle d’oca, solo che non la vedete, sotto al pelo) e iniziai a tremare e a sudare freddo. Non riuscii a trattenere le lacrime. Iniziai prima a  piangere in silenzio, tenendo gli occhi bassi per nascondere il mio dolore. Poi i singhiozzi si fecero più forti e iniziarono a scuotermi il petto, le lacrime grondavano sul mio muso e io tremavo. La cosa più tremenda fu l’umiliazione che provai nel mostrarmi così fragile, ma soprattutto così impotente e incapace di reagire a quella che io sola sembravo percepire come un’ingiustizia, nonostante si trattasse certamente di questo. A quel punto tutti si accorsero di che cosa stava succedendo. Io non riuscivo a fermarmi, perché tutte le offese che avevo subito nella mia vita tornarono a galla nella mia testa. Mi ricordai degli insulti di Papà Montone e di Madama l’Ovina, quando, ancora giovane, cercavo invano il loro affetto, che le mie candide sorelle ricevevano così facilmente. L’inganno di Mister Tasso e di M. Procione mi fecero di nuovo soffrire, e piansi anche per quello. L’odio dei castori quando ruppi il loro ramo di ulivo si insinuarono nei miei pensieri, accrescendo ancora la mia prostrazione. Le percosse di Diego il Cinghiale tornarono a farmi male, come se le avessi appena ricevute. Sentii una fitta al fianco che mi aveva colpito, iniziò a pulsare così forte da farmi piangere ancora di più. Insomma, il mio dolore era così grande che non riuscivo a fermarmi. Solo Oliver la Scimmia riuscì a calmarmi, avvicinandosi a me e bisbigliandomi all’orecchio: “Non preoccuparti, giovane amica. Andrà tutto bene, vedrai”. 

Fu quello il momento in cui pensai che era arrivato il momento che ce andassimo via da quella stupida terra.

 
 
 

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