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Episodio 4 - Capirsi

Immagine del redattore: Ilaria BuccaIlaria Bucca

Aggiornamento: 8 nov 2024

La fine di quell’adunata fu davvero triste. Mentre i gipeti ridevano sguaiatamente e applaudivano alla presunta “ugola d’oro”, io e Oliver la Scimmia ci allontanammo lenti, strisciando un po’ le zampe, parlottando fra di noi.

“Vedi, giovane pecora”, disse lui “pur sembrando magnifici rapaci che si librano con le loro ali potenti nel cielo, sono in realtà un popolo di idioti.”

“Come facevi a saperlo, Oliver?”, chiesi io.

“In tutto il mondo la storia si ripete. Troverai più eleganza e dignità in un verme che è costretto a strisciare nel fango che in popoli di animali investiti di un grande potere, di cui in realtà non sanno che farsene. Finché il verme sarà libero, o almeno combatterà per esserlo, sarà migliore della gente del popolo che domina, che vende la libertà in cambio di caramelle, senza neanche accorgersene.”

Tacemmo quindi tutti e due e, intanto, l’adunata terminò. Oliver la Scimmia decise quindi di guidarmi verso un’altra scoperta.

Poco lontano da noi c’era un grande nido di gipeti, così grande che addirittura Oliver ci poteva entrare. Era costruito sul bordo di un precipizio, sopra a un ramo che sporgeva nel vuoto, così che anche io potevo avvicinarmi.

Ci accostammo al nido e rivolgemmo la parola ai suoi abitanti. 

“Buonasera, Signori”, li apostrofò il mio saggio amico “mi presento, io sono Oliver la Scimmia, e questa è Nina, la Pecora”

Io stavo per aggiungere “Nera”, ma lui mi pestò una zampa prima che potessi farlo (e vi stupireste di sapere quanto può fare male un pestone di scimmia, anche a chi, come me, ha gli zoccoli). 

“Siamo in viaggio e siamo arrivati fino a qui per conoscere il vostro nobile popolo” dicendo questo Oliver mi fece l’occhiolino “da cui, siamo sicuri, non abbiamo altro che imparare. Possiamo avvicinarci al vostro nido?”

I gipeti, lusingati (anzi, galvanizzati) da quanto detto, risposero:

“Cari nuovi amici, siete i benvenuti nella nostra famiglia. Apparteniamo alla nobile e antica stirpe dello Zio Scott, la più magnifica nella terra dei gipeti”

Mi chiesi per quale motivo pensassero di essere così magnifici, ma decisi di sorvolare. Forse lo avrei capito più tardi, mi dissi (ma, come sempre, riposi troppa fiducia nel prossimo e nel futuro).

Fu così che iniziò la nostra permanenza tra il Popolo dei Gipeti, dalla quale imparai, come mi aveva avvisato Oliver, ad apprezzare i vermi.


Il primo problema fu di enorme portata: dovevamo capirci. La questione era molto strana: nonostante io e Oliver la Scimmia avessimo compreso benissimo il discorso all’adunata e gli “Zio Scott” non avessero avuto difficoltà a capire il nostro, da quel momento in poi non compresero più una parola e, inoltre, iniziarono a parlare in uno strano dialetto, e in più con la “r” moscia e mangiandosi le vocali, cosa che ci costringeva a chiedere due, o tre volte, che cosa diamine stessero cercando di dire.


Capirsi è fondamentale, in ogni convivenza. Anzi, in ogni relazione. Direi proprio che non c’è relazione, se non ci si comprende fino in fondo. Sapete, è come quando si litiga, da arrabbiati, e ognuno urla al vento le proprie opinioni e sente gli strepiti dell’altra parte, ma senza ascoltarli. Ognuno si chiude in una bolla di rumore, smette di pensare: si può continuare così per sempre (e infatti io ho imparato presto a essere la prima a smettere). E così fu con questi odiosi gipeti, così odiosi che, alla fine, non ci rimase nessun’altra possibilità che deriderli.


Il capofamiglia della stirpe dello Zio Scott si chiamava Diederot il Magnifico, anche se di magnifico non aveva proprio niente. Gli altri membri della famiglia che, pur non essendo gentili, né saggi, avevano almeno un aspetto non del tutto sgradevole. Diderot, invece, era grosso e con ali e zampe tozze (mi chiesi come potesse volare), poche piume gli erano ormai rimaste sul capo e il suo groppone era enorme, fuori misura. La sua voce era profonda e roca, con un tono rabbioso, come se fosse perennemente arrabbiato. Rispondeva male a tutti, anche ai membri della sua famiglia, e a me e a Oliver la Scimmia rivolgeva rimproveri carichi di disprezzo, se non capivamo quello che diceva.

Gli altri membri della famiglia non erano diversi, altrettanto rabbiosi e intolleranti. Erano totalmente sottomessi al loro capo, al quale non rispondevano mai, neanche quando lui gridava loro direttamente sul muso, con il becco spalancato e l'ugola in bella vista (una scena che vi auguro di non vedere mai, davvero disgustosa…).

La moglie di Diderot si chiamava Orchidea la Fiera, un nome bellissimo a cui corrispondeva una pollastrella di altrettanto bell’aspetto. Era slanciata, chiara di piumaggio, con un corpo possente e formoso. I suoi occhi azzurri raramente incontravano gli occhi di altri animali ma, quando succedeva, essi li fulminavano all’istante (una copia pennuta della leggendaria Medusa, insomma). Era tutta un gran sorriso dopo l’altro, era aggraziata nel parlare e gentile nei modi. Il suo portamento era regale, con le piume un po’ gonfie, la testa diritta e le ali lievemente aperte verso l’esterno. Ma dentro di lei nascondeva un animo cattivo e disonesto, che si rivelava, a un occhio attento, in diverse occasioni. Vi racconto un episodio, per farvi capire meglio. Un giorno, era una bella giornata estiva, trotterellavo tutta allegra vicino al nido, godendomi la vita prorompente che invade i prati in quella stagione. Parlottavo fra me e me, persa fra un pensiero e l’altro, fantasticando progetti per il futuro (di cui vi parlerò in seguito…). A un certo punto, Orchidea si avvicinò a me, portando fra le ali due coppe di Champagne. Mi stupii, a vederla, ma fui piacevolmente colpita dalla sua insolita gentilezza. 

“Povera Pecora, ho inteso la tua preghiera, ed ecco a te quello che chiedi”

Io la guardai con gli occhi sgranati e la bocca spalancata poi, tenendo a bada lo stupore, risposi:

“Ma io non ho chiesto della Champagne!”

“Sì, che lo hai fatto, povera Pecora!”, rispose lei già alterata, mentre i suoi occhi lanciavano saette in tutte le direzioni. 

“Ma no”, osai ribattere io.

A quel punto, lei manifestò in pochi secondi tutta a sua cattiveria e la sua prepotenza. Gridando, rispose:

“Povera Pecora! Se l’ho sentito, è perché tu lo hai detto. Non osare ribattere a quello che dice Orchidea la Fiera, o avrai un assaggio di quanto può essere temibile la mia collera!”

A quel punto, intervenne anche il figlio maggiore, Paolo il Biondo, di cui parlerò fra poco. 

“Anche io l’ho sentito, povera Pecora!”, urlò.

Io ero già stufa di discutere. Aggrottando le sopracciglia e con una smorfia sul muso, presi le due coppe di Champagne e andai a godermele con Oliver la Scimmia, all’ombra di una bella betulla, poco più un là. Chiacchierammo del più del meno, piacevolmente, e all’ora di cena eravamo felici e un po’ brilli.

Il membro che preferivo, in quella singolare famiglia, era il figlio maggiore, Paolo il Bello, appunto. Era un gipeto dalle penne chiare, gracile e affusolato. Dire che fosse strtabico è inesatto. Le sue pupille, infatti, roteavano incessantemente, senza che ci fosse alcuna coordinazione nel loro movimento. Poteva capitare che entrambe si sposassero verso sinistra, oppure che si muovessero in direzione opposta. Potevano essere tutte e due orientate verso l’alto, o verso il basso, o ancora una in su e una in giù. Insomma, erano un continuo roteare, tanto che, a fissarle, si rischiava di farsi venire la nausea. Si muoveva saltellando da una parte e dall’altra, senza sapere, almeno all’apparenza, dove andare. Poi si fermava, rimaneva un po’ imbambolato con lo sguardo perso nel vuoto, e ricominciava. Parlava di rado e quando lo faceva diceva cose senza senso, il più delle volte rivolgendosi a se stesso. Se invece il suo obiettivo era interpellare qualcuno, il poveretto in questione aveva il suo bel da fare, per capirlo! Diderot il Magnifico era molto fiero del suo pargolo. Andava di qua e di là a tessere le sue lodi, sottolineando come fosse bravo a cacciare, quanto la sua vista fosse acuta e i meriti che si era guadagnato nei lunghi anni in cui era stato addestrato. Eppure, lo vidi tornare dalla caccia solo con qualche topolino o, al massimo, qualche cucciolo di passerotto (cosa che, fra l’altro, lo rendeva spregevole ai miei occhi). Se raccontava ciò che aveva visto volando, descriveva balbettando macchie di colore che si muovevano, senza avere la minima idea di che cosa si trattasse. Eppure, il padre era così fiero di lui da essere sicuro di farne il futuro capo stirpe.

 
 
 

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