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Episodio 2 - Verso l’alto

Immagine del redattore: Ilaria BuccaIlaria Bucca

Devo dire che il racconto di Oliver la Scimmia mi turbò così tanto che per qualche ora non riuscii neanche a parlare. Continuavo a pensare a quello che era successo, vedevo davanti a me cuccioli di piccione piangere disperati sotto a una pioggia di sassi, mamme folli di dolore chiamare i propri figli in mezzo alla confusione di quelle bombe lanciate dal cielo. Vedevo i nidi e le uova schiantarsi a terra e ancora grida, lacrime, disperazione. Dentro di me sentivo un nodo alla gola e un peso sul petto. Non riuscivo a capacitarmi che tutto ciò fosse reale.


Pensavo al mio piccolo viaggio e alla mia piccola storia, quella di una pecora che, non sentendosi a casa, decide di partire, per scoprire di che colore è davvero il suo pelo. Pensavo a quante volte mi ero narrata questa storia, fra me e me, e a quento avevo pensato che fosse importante. Ora, invece, mi sembrava inutile e di poco significato. Perché raccontarla, se nel mondo succedevano cose di tale portata? Ho occhi e zampe, la lingua lunga e ho imparato a leggere e a scrivere (ache se sì, devo ammetterlo, i miei zoccoli non sono comodissimi, a questo scopo). Decisi in quel momento, fu un attimo. Guardai Oliver la Scimmia negli occhi e finalmente ricominciai a parlare:

“Oliver, Mr. Scimmia, sto per dirle una cosa molto importante. Mi ascolti con attenzione, per favore”

“Mi dica, mia giovane amica”, rispose lui affabile.

“Sa, io sono partita da molto lontano e sono in viaggio da molto tempo. In questi anni, ho sempre pensato a una cosa sola: capire di quale colore fosse il mio pelo, per trovare un posto dove sentirmi davvero a casa. Sa, adesso sono ancora più confusa di prima: so che il mio pelo non è nero, ma non so ancora di che colore sia esattamente”

“Ma, cara amica”, cercò di dire lui “il suo pelo è chiaramente bia….”

“Non mi interrompa, non mi interrompa. Mr. la Scimmia”, lo fermai io, senza ascoltare neanche una delle sue parole “Dicevo: non so ancora né chi sono, né dov’è casa mia, ma alcune cose le ho imparate. Dopo aver sentito la sua storia, ho deciso, dal momento che ho capito di avere cervello e cuore, di salire su quella montagna e di scoprire che cosa succede tra il popolo dei gipeti e nel Regno delle aquile. Quando scenderò, forse capirò meglio che cosa sta succedendo qui”

Oliver la Scimmia rimase in silenzio per un po’, forse cercava di riordinare le idee. Poi si girò verso di me e, aggrottando la fronte, mi disse: “Nina, mia cara Nina… Spesso nel modo non c’è niente da capire. Non esiste nessuna verità che giustifichi tutto questo dolore, non c’è un motivo, né uno scopo”

Rimasi un po’ delusa dalla sua risposta e, mentre cercavo di ribattere, egli stesso mi venne in aiuto:

“Tuttavia, mia cara e giovane amica, io la capisco. E la voglio aiutare. Sa, tutto sommato, neanche io ho più la forza di rimanere qui seduto, ad assistere a questa guerra di cui la fine è fin troppo certa. Saliremo insieme e vedremo che cosa succede lassù. Una volta tornati, vedremo come si sono concluse le cose qui sotto, così potrò raccontarlo al mio popolo”.

Fu uno sguardo d’intesa a suggellare il nostro patto. Ci alzammi in piedi e, senza una parola, ci dirigemmo verso la montagna. 


Per raggiungere l’attacco del sentiero dovemmo attraversare il prato che, dopo il falsopiano iniziale, iniziava a salire più deciso. L’erba era umida, il clima stava diventando freddo e per terra si formavano pozze di fango scivolose. Per noi, che non eravamo abituati alla montagna, camminare non era facile ed era piuttosto faticoso. Le mie zampe slittavano in continuazione e Oliver la Scimmia doveva spesso appoggiare le mani per terra, anche se questo non gli impediva di scivolare, ogni tanto. Alla fine del prato iniziava il sentiero vero e proprio, da subito molto in pendenza e costellato di salti di roccia, tanto che, sin dal principio, eravamo costretti a lunghi passi per superare quegli alti gradini naturali. Da quel momento in poi, Oliver la Scimmia iniziò a fare meno fatica, lasciandomi indietro in continuazione e fermandosi spesso per aspettarmi. Io arrancavo dietro di lui, con il fiato corto, e in alcuni momenti fui davvero grata di avere un accompagnatore esperto. Lui saltava agilmente da una pietra a un albero, riuscendo a coprire una distanza di parecchi metri in pochi minuti. Io invece dovevo fare piccoli passi, per fare meno fatica, e nonstante questo scivolavo, perdevo l’equilibrio e rischiavo di cadere, spaventata. Se fossi stata sola forse avrei rinunciato o forse sarei andata nel panico, ma con la sua guida al mio fianco non mi persi d’animo e continuai a salire. Il sentiero diventò un canalone fangoso, costeggiato dagli alberi. Per fortuna non c’erano più salti di roccia, né grosse pietre, per cui, sebbene ancora faticoso, il cammino diventò per me più agevole. Oliver la Scimmia saltava da un albero a un altro, incitandomi a continuare, e sembrava divertirsi un sacco. Procedemmo in questo modo per un paio di ore, poi il sentiero cambiò di nuovo, trasformandosi in una pietraia. All’inizio si trattava di pietre non troppo grosse che scivolavano a ogni mio passo, facendo arretrare la mia zampa di almeno una decina di centimetri. Mi stancavo tremendamente e spesso mi dovevo fermare. Oliver la Scimmia, essendo molto più leggero di me, saltellava con grazia e saliva in fretta. Poi le pietre diventarono enormi massi e io dovetti iniziare a ingegnarmi per passarvi in mezzo, poi per salire su una di loro e, se quella successiva era troppo lontana per essere raggiunta con un salto, scendere di nuovo. Fu davvero penoso.

Infine, raggiungemmo l’ultimo tratto. Si trattava di un lastricato naturale di pietra, a ridosso del fianco della montagna, largo solo un metro e mezzo circa, o forse meno. Dall’altra parte, sotto di noi, il vuoto.

“Non guardare giù, giovane pecora!”, mi gridava Oliver quasi correndo.

Io, terrorizzata, cercavo di seguire il suo consiglio e, non lo nego, dentro di me pregavo. 


Alla fine arrivammo sulla prima delle due cime della montagna. Si trattava del Colle dei Gipeti, come mi spiegò la mia guida.

“Vedi, proseguendo per quella ripida cresta si arriva alla cime delle Aquile”.

Cercando di non pensare a come sarei mai potuta salire sulla cresta, mi guardai intorno. Il colle era un pianoro erboso, verdissimo. La vegetazione, che da arborea era diventata di soli piccoli e radi arbusti, lì era praticamente assente. 

“I gipeti, che adesso conosceremo, fanno i nidi sui dirupi che vedi sotto di noi. Quando si riuniscono, però, salgono su questo prato, che è il luogo dove prendono le loro decisioni. Dovremo aspettare fino all’ora di cena, per incontrarli per la prima volta e iniziare a conoscerli”.

Decidemmo quindi di riposarci un po’, in attesa dell’avvenimento, e ci sedemmo sul prato. Fianlmente comoda e a mio agio, ne approfittai per guardarmi intorno. Come ho detto, il prato era verdissimo e i fili d’erba ondeggiavano per il vento ora calmo, ora intenso, scossi da raffiche violente e imprevedibili. Sotto di noi, c’era la campagna: una distesa piatta, colorata, solcata da ruscelli e, più a valle, da grossi fiumi (fra i quali pensai di riconoscere quello che avevo saltato). Era uno spettacolo meraviglioso, mai visto prima. Visto da lassù, la terra sembrava bellissimo, pacifico e senza confini (ispirato alla frase di Gagarin, per non dire parafrasato: "Da quassù la Terra è bellissima, senza frontiere né confini", NdA)





 
 
 

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