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Episodio 2 - Un cammino lungo e noioso

Immagine del redattore: Ilaria BuccaIlaria Bucca

Aggiornamento: 22 ott 2024

Dopo aver compiuto solo pochi passi, stravolta dalla fuga, decisi di riposarmi ancora un po’, anche se stava albeggiando. Per prudenza, misi ancora un po’ di distanza fra me e la tana di quegli orribili animali, poi mi accasciai e mi addormentai in un attimo. Non so se avete presente quanto sia stancante correre, e non so se avete notato quanto lo sia anche piangere. Pensate un po’ a quanto possono essere stancanti le due cose insieme. Così stancanti che dormii a lungo, molto a lungo. Quando mi svegliai, con gli occhi stropicciati, mi sentii come quando, dopo essere stati sollevati dalla propria pena durante i sogni, si ritorna alla realtà, che è un incubo. Un senso di pesantezza mi assalì al petto, mentre ancora gli occhi non si erano liberati dalla patina del sonno. Sentivo un’ansia acuta, che scaturiva dal profondo, un terrore fatto di incredulo spavento, per aver scelto di scappare da casa, e di scoramento, perché non sapevo che cosa ne sarebbe stato della mia vita. Nello stesso momento, pensavo al fatto di come avevo fatto a farmi abbindolare, prendere in giro da quei due stupidi brutti ceffi, a che cosa stessi pensando quando decisi di seguirli (ma voi, lettori, ve lo ricordate, vero?), alla cattiveria con cui avevano approfittato di me . Sentivo una rabbia distruttiva, una forza esplosiva che vagava incontrollata nel mio petto, nella mia testa e non serviva a niente correre, urlare e prendere a calci gli alberi fino a farmi sanguinare gli zoccoli, e non servivano le testate e non serviva rotolarsi in terra, né belare al cielo per chiedere una risposta. Intorno a me, il silenzio, rotto solo dai miei lamenti perché, in effetti, ero riuscita a farmi male, anche fisicamente.

Non sapevo cosa fare. Non avevo più voglia di fare niente.

Quindi vagai un po’ senza una meta, piangendomi addosso, elencando nella mia testa tutte le pene e tutti i problemi della mia della mia vita. In mezzo a tutti questi pensieri, rimuginavo nella mia testa e mi sembrava che i meccanismi all’interno di essa producessero un gran boato. Passai così almeno tre ore, nella depressione più assoluta. Ma sapete, sono una Pecora Nera, ma sono pur sempre una pecora allegra, e quindi dopo un po’ mi tornò l’allegria. Quando la mia testa si liberò dai pensieri, mi resi conto che il boato che sentivo in precedenza non era prodotto dalle mie preoccupazioni, ma veniva dal corso d’acqua accanto al sentiero su cui stavo gironzolando. Stupita dalla portata d’acqua di quel fiume, mi avvicinai alla sponda, e fu così che feci il mio secondo incontro.


Intenti a lavorare nell'acqua, trasportando rami, ramoscelli e anche qualche tronco dal diametro non indifferente (almeno una ventina di centimetri), vidi degli animali dall’aspetto simpatico, dal corpo tozzo, un musetto affusolato e due occhietti intelligenti. Un’intera squadra di essi era a lavoro: alcuni rosicchiavano rami e alberelli per farli cadere, mentre altri li facevano rotolare per trasportarli. A sovrintendere il lavoro, il capocantiere si ergeva su un’isoletta in mezzo al corso d’acqua e, con un foglio di carta in mano, guidava gli altri con gesti eloquenti. Il tutto avveniva nel più assoluto silenzio, rotto solo dal rumore degli alberi che cadevano e da quelli che venivano spostati. I legni venivano accumulati a qualche metro dall’isoletta (fatta anch’essa di rami), creando una sorta di linea che attraversava il fiume. L’acqua, su entrambi i lati della costruzione, era calma, quasi ferma, e poco più in su sorgeva un altro attraversamento di legno, uguale al primo. Non capii bene come funzionassero queste due costruzioni, ma quegli animali mi sembrarono da subito molto intelligenti. 

Mi avvicinai il più possibile all’acqua ed emisi un belato di richiamo. Come al solito, non pensai neanche per un istante all’eventualità di potermi mettere in una situazione pericolosa. Per impararlo, mi ci volle molto, molto tempo e comunque, anche alla fine di questa storia, vedrete che i miei criteri di valutazione saranno molto approssimativi. 

“Ei voi!”, urlai, ma nessuno mi sentì, perché il rumore era troppo forte. Allora decisi di fare qualche passo nell’acqua, che mi arrivava al ginocchio, e di avvicinarmi un po’ al capocantiere, ripetendo il mio richiamo. Non so se fu perché lo udì, o semplicemente perché doveva controllare qualcosa, ma l’animale si girò, mi vide ed ebbe un sussulto così forte che gli cadde il foglio di mano. Arrabbiato e balbettando, lo raccolse ed imprecò, chiedendosi: “Come farò adesso? Il mio progetto è perduto… ci vorrà un sacco di tempo a rifarlo!”, poi si girò verso di me e, per niente spaventato, mostrandomi i suoi grossi canini arancioni e rossastri, mi disse: "Che cosa vuoi tu, qui! Una pecora! Una sporca sozza, pelosa Pecora nel mio lago! E’ un’indecenza! E’ contro natura!”

Poi si ricompose e, assumendo di nuovo un’aria intellettuale, mi chiese:

“Allora, signorina, che cosa ci fa lei qui? Ha bisogno di noi castori, magari uno steccato rotto o un abbeveratoio in fine legno di quercia per lei e le sue compagne?”

“Io, vede signore”, risposi con la maggior grazia che mi fu possibile, “io sono una Pecora Nera, ero stanca di essere discriminata dalle mie compagne, e quindi ho lasciato l’ovile e cerco un posto dove stare”.

Il Capo Castoro si stupì così tanto che a momenti non gli cadde di nuovo il foglio di mano. “Signora!, mi rispose con educazione, “lei non è nera!!!!”

Credetti che fosse daltonico e lo assecondai.

Lui continuò: “Senta, lei ha lasciato le sue compagne, vuol dire che è molto sveglia. Se vuole può stare con noi. Le costruiremo un riparo entro sera, lì su quella spiaggetta. E se le interessa, le insegnerò i segreti del mestiere. io con le mie capacità e lei con la sua forza, potremo costruire grandi cose!”

E io, anche questa volta, accettai. In quest’occasione, però, sentii nascere dentro di me un grande entusiasmo, una gioia che scaturiva dalla convizione che ce l’avevo fatta, finalmente, a trovare il mio posto. Ero felicissima, mi sentivo invasa da una felicità tale a spingermi a saltellare e distribuire grandi sorrisi a tutti i castori che, pur senza tralasciare i loro lavori, mi guardavano stupiti. Come vi racconterò a breve, la realtà si rivelò molto diversa da quello che mi aspettavo.


I primi sei mesi furono stupendi, mi sembrava di vivere in un sogno. Capo Castoro era una persona davvero istruita e io, pur sempre una Pecora Nera, nutrivo però per la cultura un amore sconfinato. I primi periodi furono scanditi da conversazioni lunghissime, lezioni di matematica e geometria, ma non solo. Idraulica, meccanica, fisica erano parte delle nostre giornate sul lavoro perché, mentre Capo Castoro impartiva ordini qua e là e io portavo sulla schiena tronchi pesanti, ci ritagliavamo piccole pause per discutere di quella costruzione lì, di come facesse a essere così stabile quel ponte, se non fosse il caso di costruire una diga più a monte e così via. Ma i momenti migliori erano i giorni liberi, i giorni di pioggia, in cui ci rintanavamo nella mia casetta, o i giorni di riposo (sareste stupiti di sapere quante festività onorano i castori), in cui le nostre discussioni riguardavano la letteratura, l’arte, la filosofia, la musica e tante altre questioni ancora. La mia infanzia e la mia adolescenza furono solitarie, ma, sempre chiusa nella stalla, ebbi il tempo di fantasticare e di riflettere. Il fattore ogni tanto lasciava in giro qualche vecchio vecchio libro o delle riviste e io, curiosa di scoprire il mondo, le divoravo. Capo Castoro, però, mi aprì del tutto la testa. La mia fantasia correva da una materia all’altra e io mi sentivo finalmente soddisfatta. Purtroppo, però, non durò molto. 


Mamma Castoro, infatti, fece la sua prima cucciolata e, come è giusto che sia, Capo Castoro tornò alla sua famiglia, per onorare i suoi doveri, come le tradizioni dei suoi antenati raccomandavano di fare. Io mi sentii un po’ abbandonata e all’inizio fu difficile poi, visto il mio temperamento allegro, decisi di provare a farmi strada nel mondo dei castori sulle mie quattro zampe, e lì cominciò la fine. Dovete sapere, infatti, che i castori, oltre a essere molto esperti di ingegneria e di costruzioni, per il resto non sono né fini, né eleganti, né sofisticati come mi era sembrato all’inizio. Infatti, non condividendo più con capo castoro le mie giornate di lavoro e quelle di festa, mi si aprirono gli occhi su come questi animali vivano la propria vita. Essi lavorano, a testa bassa, e ottengono risultati perfetti, anzi impeccabili. ma se li interroghi su questioni tutto sommato non troppo difficili, per esempio perché fanno quello che fanno (non solo per quanto riguarda le basi fisiche e meccaniche del proprio lavoro, ma anche sul motivo per cui conducano la loro esistenza in questo modo, da instancabili e impeccabili lavoratori) non sanno assolutamente che cosa rispondere.

Inoltre, le loro feste sono i simposi più disgustosi a cui abbia avuto la sfortuna di partecipare. Si nutrono di cortecce e foglie, ma ignorano del tutto le tenere foglie di cicoria selvatica, di rosmarino di campo, o le erbette selvatiche. Bevono solo l’acqua del loro stagno, perché sono troppo pigri per andare alla sorgente e, inoltre, hanno abitudini sentimentali deplorevoli. Si accoppiano e si scoppiano con una velocità incredibile e poi, all’improvviso, nel giro di pochi mesi, scelgono una compagna, si sposano, stanno con lei tutta la vita e non solo, hanno anche diverse cucciolate. Amano ostentare le forme originali delle loro tane, le decorazioni finemente intagliate, le soluzioni quasi geniali ideate per le prese d’aria, per i cunicoli, per le strutture sopraelevate che impediscono all’acqua di entrare. Ma, più di tutto, amano elogiare la propria conoscenza della matematica, della fisica, dell’ingegneria strutturale e dell’architettura. Amano se stessi prima di tutto, prima della famiglia, dei propri figli e del proprio branco. Nelle serate passate con loro, li ho visti bere e mangiare, mentre con snobismo declamavano ubriachi giochetti matematici o indovinelli, che gli altri dovevano risolvere. Una noia infinita.

Fu proprio una di quelle sera che, da brava Pecora Nera, ne combinai una delle mie. Stravolta dalle loro declamazioni infinite, chiesi gentilmente al branco riunito se potevo andare a fare un giro per il fiume, seguendone il corso in piedi su un grosso tronco, cosa che ero solita fare per sopravvivere alla solitudine, alla tristezza e alla monotonia. Addirittura contenti di scrollarsi di dosso quell’insopportabile animale peloso (che, se non l’avete capito, sono io), mi indicarono un tronco. Però non si trattava di uno di quei soliti che usavo, ma era di un legno raro, l’ulivo, il cui tronco è composto di tante parti, simili a rami, ma più spessi, che si arrotolano su di loro. Come al solito mi fidai e ci saltai sopra, iniziando a scivolare sull’acqua. Mi accorsi subito che era difficile da indirizzare, ma continuai comunque il mio gioco. A un certo punto, una corrente improvvisa mi fece perdere il controllo e io mi ribaltai, mentre il tronco, andando a sbattere sui sassi, si rompeva in tanti pezzi. Tutta ammaccata mi alzai, per fortuna l’acqua era bassa e, instabile sulle zampe, tornai barcollando alla tana. Prima di andare alla mia casetta, mi sentii di avvisare gli altri dell’accaduto, e non vi dico che pasticcio successe. I castori si arrabbiarono, mi accusarono di aver mancato loro di rispetto e, senza preoccuparsi neanche di chiedermi se mi ero fatta male, mi esclusero dal branco. Intervenì Capo Castoro, che disse, con voce tuonante:

“Come ti viene in mente di fare una cosa simile? E non hai neanche pensato di riportarci il tronco!”

Provai a spiegare che si era rotto in tanti pezzi e che sarebbe servito più a niente, inoltre non ce l’avrei fatta, così ammaccata. Ma lui non mi fece neanche parlare e, con un’espressione saggia ma con un tono autorevole, disse:

“Non puoi più restare qui. Domani abbandonerai la tua casetta e, di buon’ora, ricomincerai il tuo viaggio”

Così fu, e io ricominciai a vagare e a cercare.


 
 
 

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