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Episodio 1 - La guerra dei corvi e dei piccioni

Immagine del redattore: Ilaria BuccaIlaria Bucca

Aggiornamento: 29 ott 2024

Questo episodio racconta una storia vera. I link svelano quali accadimenti mi hanno ispirato mentre scrivevo (NdA).

Lì per lì, come vi ho detto, non avevo una risposta a quella domanda. Quindi, come faccio di solito quando mi annoio, iniziai a camminare svogliata nel bosco, trascinando un po’ le zampe, lanciando qualche occhiata da una parte e dall’altra. La bellezza del luogo, devo dire, continuava a incantarmi, tanto da dissolvere la noia, che lasciava il posto a un vivo entusiasmo e a una grande voglia di scoperta.

Dopo aver camminato a lungo su sentieri pianeggianti, a un certo punto mi trovai davanti a una salita. Il cammino procedeva fra i rovi, che si attaccavano al mio pelo e lo strappavano dolorosamente, ma io decisi di proseguire. Nonostante la fatica che facevano le mie gambe e il dolore alle zampe, non abituate alla pendenza e alla vegetazione aggressiva, proseguii e, poco a poco, le piante e gli alberi cambiarono. Gli ontani, i salici e gli olmi, gli aceri, i frassini e i pioppi, sia bianchi sia neri, lasciarono il posto alle betulle, ai larici e a tante conifere. Ai piedi degli alberi, vidi tanti funghi colorati. C’erano le russule, con il cappello piatto, verdi, viola e rosse, con lo stelo non troppo alto, bianco e sottile. Poi c’erano le vesce, bianche e rotonde, che se le toccavo mi esplodevano con la loro polvere bianca fra le zampe, e le ammaniti rosse rosse, con delle simpatiche macchiette bianche sul cappello (quelle le avevo già viste, le mangiavano i cinghiali). Ai piedi delle querce, poi, vidi i funghi più belli che avessi mai visto, i porcini reali, tondi e pasciuti. Dopo un po’ che camminavo ammirando queste splendide forme di vita, vidi il bosco diradarsi, per lasciare il posto a un grande prato. Davanti a me, sulla distesa di erba verde, si vedevano un sacco di bianchi prataioli, in piedi sul loro stelo diritto e sottile, ornato da un gonnellino dello stesso colore. 

Mi trovavo nella parte più bassa di un’alta montagna che, innalzandosi dalla piana, si ergeva fino a raggiungere i duemila, o i tremila metri (da lì non era facile calcolarlo). Essa costituiva la porta d’ingresso di una splendida vallata alpina, in cui i rilievi si avvicendavano a colli, creste frastagliate, cime sottili e altre più simili ad altopiani, ma tutte splendide e altissime.


All’inizio fui talmente affascinata da quel grande spettacolo, che non mi accorsi che, al fondo del prato, c’erano tre alberi: due querce, molto vicine fra loro, e, un po’ più spostato sulla sinistra, un esemplare dei famosi ulivi di montagna (massì, non so se voi lo sapete, ma esistono, e sono anche molto numerosi). 

Avvicinandomi, vidi che una delle due querce era coperta da una rete. Sui suoi rami spogli, su cui non era rimasta quasi più nessuna foglia, e le cui bacche si contavano sulle dita di una sola mano, stava solo più qualche vecchio piccione malato o ferito che, non potendo più volare, aspettava la morte su quell’albero privo di cibo. La quercia accanto, invece, era piena di corvi. Ognuna delle floride famiglie aveva un suo ramo. Su ognuno di essi, c’erano molte bacche, numerose foglie e tanti nidi di grosse dimensioni, costruiti a regola d’arte e con un aspetto davvero resistente.

Feci due passi per raggiungere l’ulivo, che a prima vista sembrava non essere abitato da alcuna forma di vita, nonostante i suoi frutti fossero poco numerosi e di piccole dimensioni, come se qualcuno avesse mangiato quelli più grossi. Quando mi avvicinai, mi accorsi che era popolato da numerosi uccelli, principalmente piccioni e colombe bianche, ma anche qualche raro colombaccio, che si nascondevano stringendosi intorno al tronco. Mi chiesi il motivo di quello strano spettacolo e la risposta non tardò ad arrivare. 

“Che mi venga un colpo!”, sentii esclamare alle mie spalle, “Che cosa ci fa una Pecora, una bella e candida Pecora, da queste parti?”

Mi girai di scatto e dietro di me vidi una scimmia.

“Buongiorno, mi presento: sono Nina, e sono una Pecora Nera”, risposi. Non avevo ancora ben chiaro di quale colore fosse il mio pelo, anzi ormai ero piuttosto confusa. Tuttavia, ormai quello era il mio nome e, almeno per il momento, avevo deciso di tenermelo. 

“Potrei ribaltare la domanda, Signora Scimmia. Che cosa ci fa lei, qui?”

“Oh, che maleducato. Mi scusi, lei ha ragione, cara. Mi chiamo Oliver e vengo dall’India inglese. Sono un giornalista.”

Non mi risultava che l’India fosse inglese, né tanto meno che le scimmie potessero essere dei giornalisti. Evidentemente davanti a me avevo un colto ed elegante animale, ancora attaccato a retaggi coloniali quali l’ora del the e altre piccole sciocchezze (la sua voce in effetti aveva un perfetto accento dello Yorkshire). Si trattava, pensai, di una scimmia così intelligente da aver imparato a scrivere e che aveva deciso di girare il mondo per fornire, al suo ritorno, dei dettagliati reportage ai suoi compaesani.

“Piacere di fare la sua conoscenza, Mr. Scimmia”, replicai e poi subito andai al sodo: “che cosa sta succedendo qui, for Gozeic?”, chiesi, imitando per cortesia quel poco di inglese che mi era rimasto nella testa.

“Si dice For God’s sake, mia cara”, mi rispose Oliver la scimmia “e quella che vede davanti a lei è la guerra fra i Corvi e i Piccioni”.

“Sembra una cosa terribile!” replicai inorridita.

“Così è, infatti. Ma, se le interessa, venga a sedersi qui vicino a me, le racconterò quello che è successo”.

Mi accovacciai accanto alla scimmia, che cominciò il suo racconto.


“L’inzio di questa storia risale a molti, molti anni fa. Era un’epoca oscura, durante la quale il Bene e il Male si fronteggiarono per lungo tempo. A un certo punto, sembrò che il male stesse per avere la meglio, ma alla fine vinse il Bene. Le battaglie vennero combattute in mare, dai pesci, a terra, dai leoni e dalle tirgri, dalle pantere e dalle iene, e in cielo, dagli uccelli. Quando tutto finì, la terra era una landa desolata: boschi, coste, fondali marini e montagne erano distrutte. Il Bene non si perse d’animo, e cominciò a lavorare per ricostruire la Terra, bella com’era una volta. Quelli che avevano sofferto le pene maggiori erano i corvi. Essi vennero perseguitati in tutto il mondo dal Male, che sosteneva che questi animali, neri e per questo crudeli e spaventosi, erano la causa di ogni sofferenza. 

Alla fine del conflitto, i gipeti e le aquile, che avevano combattuto insieme per il Bene, decisero di donare una patria ai Corvi, ormai decimati e spersi in ogni parte del mondo. Si decise per quel florido albero che vede lì, la quercia più a sinistra. 


Si trattava originariamente di un albero dei piccioni, al quale però alcuni gipeti, circa trent’anni prima dell’inizio della guerra, avevano attribuito lo statuto di territorio dei corvi. In un primo momento, piccioni e corvi non si dettero troppo fastidio. Anche se fin dall’inizio i corvi imposero le loro abitudini gerarchiche e di approvvigionamento del cibo, i piccioni  riuscirono a continuare quasi indisturbati la propria vita. Anzi, alcuni di essi espressero una certa ammirazione per quello che avevano fatto i corvi. Tuttavia, alcuni piccioni vedevano male i corvi già dall’inizio e non mancarono drammatici episodi di tensione, che costituirono il seme della rabbia covata dalle due specie di uccelli.


Le cose precipitarono alla fine del conflitto, quando, anno dopo anno, i corvi, che avevano conquistato i rami più ricchi di bacche, e, grazie al migliore nutrimento, erano più forti e più numerosi dei piccioni, straziarono gli avversari con cattiverie infinite. Li cacciarono dai rami migliori, segregarono i loro cuccioli nei nidi più piccoli e fragili, si appropriarono delle ghiande più grosse, fino a commettere un’ultima estrema atrocità. Dopo aver cacciato tutti i piccioni dalla quercia di sinistra e averli costretti ad ammassarsi su quella di destra, stesero sull’albero una rete, che impediva agli uccelli di volare. Molti piccioni persero tutto. Quelli che abitavano sui rami più bassi rimasero senza niente da mangiare. Quelli che, preferendo il sole, avevano costruito il loro nido sulla parte esterna dell’albero, persero le loro case, i loro cuccioli e le loro mogli. La rete, infatti, scuotendo le punte dei rami, li fece cadere giù, ed essi si schiantarono al suolo.

Alcuni fra questi piccioni, furiosi e armati di una forza cieca e distruttrice, si misero insieme, costituendo la Cosca dei Piccioni Arrabbiati. Questa, insinuandosi di notte nei buchi della rete, attaccò l’albero dei corvi molte volte, colpendo a caso i nidi con le pietre raccolte col becco da terra. Molti piccioni, terrorizzati dalle possibili ritorsioni dei corvi, chiesero alla Cosca di non farlo, ma la banda non volle ascoltare ragioni. 


Nessuno poté più fermare la rabbia omicida dei corvi. Essi si abbattevano, di giorno e di notte, sull’albero dei piccioni e li uccidevano con micidiali colpi di becco sul capo. Le uova venivano distrutte, insieme ai nidi, e le mamme uccise, insieme ai cuccioli. Fu una carneficina tremenda, in cui la maggior parte dei piccioni perse parenti e amici. Alla fine i piccioni erano decimati. Neanche la Cosca contava più numerosi seguaci, perché quasi tutti, anche il loro capo, erano stati uccisi dai corvi che, mirando alla cieca, avevano spaccato la testa anche ai loro veri avversari. 


A quel punto, successero due cose. Alcuni piccioni, terrorizzati, scapparono. Alcuni chiesero aiuto ai gipeti, ma essi risposero con disattenzione, se non abbandonando del tutto i piccioni al loro crudele destino. Alcuni rapaci, infatti, accolsero i profughi nei loro nidi, ma a caso, senza curarsi di dividere le famiglie e addirittura le mamme dai loro piccini. Altri sostennero di non potersi occupare della faccenda, rimanendo impassibili davanti a questo scempio crudele. Sulla quercia rimasero, come vedi, solo gli animali che non potevano scappare, a causa di ali spezzate e debolezza, dovuta alla malnutrizione e alla vecchiaia. I piccioni che non riuscirono, o non vollero, nascondersi nei nidi dei gipeti, andarono a chiedere ospitalità ai colombi che abitavano l’ulivo. Essi non rifiutarono e si prepararono ad accoglierli come meglio potevano. 

A quel punto, la guerra si fece ancora più aspra. Quando i corvi, sempre più terribili e assetati di sangue, sferrarono i loro attacchi crudeli sull’ulivo, la Cosca dei Piccioni Arrabbiati, che, avendo perso i propri capi era ormai guidata da un enorme colombaccio, non esitò ad attaccare l’albero della quercia, massacrando numerosi uccelli. A terra c’erano corpi di uccelli di ogni specie: non solo piccioni, i più numerosi, ma anche tante colombe, qualche corvo e i passerotti blu, inviati dai gipeti disinteressati a difendere, con le loro poche forze a disposizione, i piccioni che si erano rifugiati sull’ulivo.

Proprio mentre la situazione, degenerata in modo atroce, si trasformava in un autentico genocidio del popolo dei piccioni, i gipeti, nonostante l’inefficacia dei loro irrisori aiuti, si disinteressarono del tutto della cosa. In cima alla montagna, infatti, i due eredi del Re Aquila, ormai moribondo, si sfidavano per la successione. La voce si sparse veloce e i gipeti volarono velocissimi verso l’alto, per non perdersi lo spettacolo che stava per avvenire sulla vetta.

Solo io, Oliver la Scimmia, anche se posso arrampicarmi in cima a questa montagna in meno tempo di quanto il più veloce dei gipeti possa raggiungerla volando, sono rimasto qui, per assistere alla fine di questo terribile scontro.”

“Perché?”, chiesi.

“Vedi, giovane Nina, detta la Pecora Nera, io spero che la memoria di queste atrocità, che racconterò al mio popolo quando tornerò a casa, suscitino non solo orrore, ma anche la ferma volontà che non si ripetano mai più”.

“Capisco, ma perché questo non è successo qui, luogo in cui ancora ogni uccello si ricorda della terrificante guerra fra il Bene e il Male?”.

“Non lo so, giovane pecora. Forse gli uccelli hanno cattiva memoria. O forse, semplicemente, il Bene e il Male non esistono, sono solo gli animali che si scontrano rabbiosi gli uni con gli altri”.

Detto ciò, Oliver la Scimmia tacque. Entrambi rimanemmo attoniti a fissare quell’orribile e sanguinario spettacolo.







 
 
 

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