Ci svegliammo la mattina seguente quando il sole era ormai alto nel cielo, un bel sole splendente che regnava sovrano nel cielo azzurro e privo di nuvole. L’aria era fresca, frizzante, con quell’odore che c’è solo in montagna, di ari pulita, tersa, sincera. Tirai una bella boccata d’aria a pieni polmoni e mi girai verso Oliver la Scimmia.
“Buongiorno, mia giovane amica”, mi disse lui.
La nostra giornata prevedeva un unico programma: salire sulla montagna. Il sentiero davanti a noi era ben visibile e pulito, la temperatura era tiepida ma non fredda. Non ci restava che cominciare a camminare.
All’inizio fu faticoso, ma dopo poco tempo anche le zampe si scossero dal torpore nel sonno e il nostro passo diventò più veloce.
Il cammino proseguiva ripido, montando sul versante della montagna che si affacciava sulla vallata sottostante. Era un bel percorso esposto, che ci permetteva di vedere bene tutto il panorama intorno a noi. La valle era verdissima. Al nostro sguardo si apriva una vista fatta solo di montagne, di vette che si susseguivano a perdita d’occhio. Non avevo mai visto niente di così bello.
Dopo aver camminato per ore, ci fermammo in una radura per riposare un po’. Riprendemmo il cammino dopo non molto.
Questa volta il sentiero si inoltrava in un bosco, perdendo un po’ della sua pendenza. Dopo averlo seguito non molto a lungo, ci rendemmo conto che il bosco diventava sempre più fitto, tanto che i rami degli alberi ci impedivano addirittura di vedere il cielo. Camminavamo quindi sotto a una volta scura e il silenzio era interrotto solo da qualche raro verso di uccello.
In breve, raggiungemmo una palude. Il sentiero si interrompeva dove essa cominciava e riprendeva alla fine. Non ci restava altra scelta che attraversarla, ma né per me né per Oliver sarebbe stato facile. Lui non poteva, come al solito, utilizzare la sua abilità nell’arrampicarsi sugli alberi, perché i rami, troppo umidi, non avrebbero retto il suo peso. Non ci restava altra scelta che inzuppare le zampe nel fango e, un passo dopo l’altro, sorpassare quell’acquitrino fetido.
“Allora, Oliver”, dissi io, con voce isterica “Chi va per primo?”
“Mia cara amica, partiremo insieme. Sei pronta? Tre, due, uno…”
E al suo zero immergemmo entrambi la zampa destra nel fango. Subito, la terra bagnata sembrò sostenere il nostro peso, come se al di sotto di essa ci fosse uno strato più duro. Allora decidemmo di immergere anche la seconda e, per quanto mi riguarda, la terza e la quarta zampa. Ma quando fu il momento di sollevare nuovamente quella che avevamo immersa per prima, non riuscimmo più a muoverla. Il fango la imprigionava, chiudendola in una morsa stretta e fatale. Cercammo quindi invano di liberarci, tirando con sempre più forza. Gemevamo per lo sforzo e ci agitavamo cercando in ogni modo di tirare su quella dannata zampa, ma tutto era inutile.
A un certo punto, Oliver gridò:
“Ferma, amica mia!”
Mi chiesi il perché, ma purtroppo la risposta fu ovvia sin da subito. Guardando in basso, mi accorsi che a ogni nostro movimento scivolavamo un po’ più in basso nel fango.
A quel punto ci immobilizzammo entrambi, spinti dallo spirito di sopravvivenza, che ci imponeva di non muovere neanche un muscolo. Il nostro fiato produceva nuvolette di fumo nell’aria, che con il fare della notte stava diventando gelida. Eravamo intrappolati nelle sabbie mobili, senza sapere che cosa fare. Tremavamo di paura mentre i nostri pensieri correvano all’impazzata, considerando tutte le possibili opzioni, calcolando le probabilità, cercando una scappatoia.
All’improvviso, successe qualcosa. Qualcosa che avrebbe cambiato la situazione in un batter d’occhio, e in modo definitivo.
Puf. Come da una nuvola di zolfo, esplosa all’improvviso davanti ai nostri occhi, apparve una strega. Era una figurina magra, un po’ gobba, con le gambe gonfie strette in dei pantalonui di lattex nero, che evidenziavano la mollezza delle sue carni. Sopra, portava un maglione fuori moda già negli anni Ottanta, ma che riusciva però a anticipare la volgarità tipica dello stile di quegli anni. I suoi capelli biondi erano lunghi fino all’altezza delle orecchie e radi. Incorniciavano un viso solcato dalle rughe, degli occhi azzurri, accesi da una luce malvagia, stanchi e circondati da occhiaie gonfie e scure. La sua bocca di contraeva in un ghigno malvagio, in una smorfia che, rendendo più fitta la ragnatela delle sue rughe, donava al volto un’espressione sì ancora più cattiva, ma al tempo stesso, per chi l’osservava, ancora più pietosa e priva di carattere. Non so dire se provai paura, perché la prima cosa che mi strinse lo stomaco fu un immenso disgusto per quella povera figura deformata. Quando la vidi, oltre all’odio e al disgusto, provai anche un’altra orribile sensazione: seppi subito che le nostre vite sarebbero state legate per un po’.
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